ROTARY CLUB VALLE DEL SAVIO

PALAZZO DOLCINI – MERCATO SARACENO
9 MAGGIO 2008

Presentazione libro

“GILBERTO TONTI,
MEDICO E ROMANZIERE DI TALENTO”

di Edoardo Turci

Edoardo Turci

Riguardo ciò che è stato relazionato dal sottoscritto in questi quattro anni, a cominciare dal 24 aprile 2004 con la prima iniziativa “Gilberto Tonti, medico e romanziere di talento”, è stato raccolto – su proposta del senatore Lorenzo Cappelli – in questo libro che documenta, per sommi capi, le fasi della sua esistenza segnata, tra le altre cose, da continui interrogativi sul senso della vita e sul “dopo”.
Di intelligenza acuta, assolutamente libera da ogni conformismo, il dottor Tonti, nato esattamente 82 anni fa, il 9 maggio 1926, esercitò la professione di medico per 47 anni (si era laureato in medicina e chirurgia a 23 anni, riportando forse un record nazionale, come quello di iscriversi all’età di 75 anni al corso di laurea in Filosofia), prima ad Alfero e poi a Mercato Saraceno.

Conferimento Premio Gilberto Tonti

Un’esistenza, la sua (morì l’8 febbraio 2004), che si può scomporre in più stagioni: quella giovanile trascorsa nella città di Cesena, con ottimo profitto a scuola e con le indimenticabili vacanze estive nella villa di Cesenatico in Viale dei Mille; poi la stagione alferese e infine quella mercatese, con l’aggiunta di vicende, episodi e personaggi che - come lui stesso scrisse – avevano meritato il suo ricordo.
Genitori Gilberto Tonti Mi limiterò ad evidenziare alcuni suoi brani attraverso i quali è possibile apprezzare il suo talento di scrittore che mai, in vita, ha voluto rendere pubblico.
Inizia i suoi “Appunti di viaggio” parlando di quando, per la prima volta, vide Alfero - attorno metà novembre del 1954 – paese nel quale, di lì a poco, avrebbe dovuto assumere la condotta medica, alla quale, a quei tempi vi si accedeva per concorso. Quindi, paradossalmente, nelle zone più disagiate e decentrate nelle quali nessuno voleva restare, vi giungevano i medici più preparati, in quanto vincitori, appunto, di concorso.
Gilberto Tonti Come altri medici cominciò ad esercitare la professione oltre mezzo secolo fa, in un mondo che non esiste più; i medici, i maestri, le levatrici, i parroci in quegli anni - e in quel tipo di società - esercitavano un ruolo che conferiva loro autorità sia in campo professionale sia in quello sociale. Di quel mondo tutto si è spento, allo stesso modo di come si sono spenti anche quei protagonisti. Alfero - all'epoca - era un luogo separato dal resto della vallata con un'unica strada; le altre erano tutte mulattiere e servivano per raggiungere luoghi come Pereto, Ronco di Mauro, la Radice, la Cascina - quindi zone prive di collegamenti e contatti, salvo qualche fiera o festa paesana. Oggi, con il superamento di tutti questi aspetti, si è contribuito a globalizzare anche quel modo d'essere d’un tempo.

Gilberto Tonti e alcuni amici

«Le vecchie case sono state tradite - commentava Tonti - e abbandonate e solo qualcuno, nostalgico, illuminato e testardo è rimasto a presidiare, più che le mura e le vecchie strade, la memoria di quel costume di vita».

Famiglia di Gilberto Tonti

Alfero gli apparve subito dopo il passo dell’Incisa, come una serie di case disseminate, alla maniera di un gregge incustodito, ai lati dell'unica via e lungo gli argini di un torrente. Le case, con poche eccezioni, erano di sasso grigio con qualche fregio di pietra serena, appena più chiara, attorno alle finestre, e le tegole di ardesia ancora più grigie dei muri e dello stesso colore, monotono e deprimente. Doveva decidere in fretta se rimanervi oppure no e scriveva: “Incalzato dal poco tempo che la legge ancora mi concedeva, avrei decidere sulla mia vita per i prossimi anni - alla fine sarebbero stati poco meno di sei - e sul mio futuro professionale: non potevo più differire la mia scelta fra la prospettiva di lavoro immediato e sicuro che avevo davanti e quella, suggestiva ma precaria, di offerte ancora indeterminate e vaghe e di progetti ancora tutti da verificare che andavano dalla carriera universitaria e ospedaliera a quella di medico di bordo o di ricercatore presso il Ministero della Sanità”.

Famiglia di Gilberto Tonti

La decisione però, che finalmente presi, di proseguire anziché riprendere la via di casa e preparare una lettera di rinuncia non fu istintiva, ma provocata più banalmente da un raggio di sole che, aprendosi un varco fra la caligine umida e grigia di quel mattino, illuminò all'improvviso la lunga catena di monti che dal Faggio scritto alla Moia chiudono a meridione la conca di Alfero: erano già coperti dalla prima neve e quel candore, inatteso e abbagliante, conferiva alle loro cime l'aspetto seducente delle cose improbabili e lontane.

Fratelli Tonti

E fu probabilmente la visione di quella montagna, adagiata come una balena bianca e solitaria sulle pendici ondulate e ancora verdeggianti dell'altopiano, a facilitare la mia scelta di proseguire verso quelle case che, a prima vista e di lontano, mi avevano insinuato nell'animo una istintiva avversione e una indefinibile sensazione di sgomento: o forse era proprio così che doveva andare”
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Poco dopo - scrive sempre nei suoi “Appunti…” - ero alle prese con la gente del paese che di me conosceva assolutamente tutto e non ne faceva mistero: il mio nome, naturalmente, quello di mia moglie e di Pier Luigi, la famiglia di origine e la città dalla quale venivo, il mio breve passato professionale e la fama che mi aveva, non so come, preceduto di medico valente e di fortunato seduttore.
Col passare degli anni avrei fatto l'abitudine a quella specie di telegrafo senza fili, incontrollabile e tortuoso come la galleria di una talpa, ma quel mattino provai stupore e fastidio di fronte a persone così sfacciatamente informate e curiose di tutto. Qualcuno di loro mi segnalò il nome, di una vecchia levatrice in pensione, l'unica forse in tutto il paese disponibile a cedere in affitto una villetta nei pressi del ponte romano, all'inizio della mulattiera per Riofreddo e a poche decine di metri dall'ambulatorio comunale.
La donna alla quale mi presentai un'ora più tardi mi stava aspettando, evidentemente avvertita dal tam-tam del castagneto, e fu sicuramente il primo esemplare da me conosciuto di quella ubiquitaria categoria di persone che hanno in comune l'interesse morboso e capillare per la vita e le vicende degli altri.
Da quel tempo ho potuto verificare, nelle più diverse occasioni, che l'occupazione di gran lunga più diffusa nelle nostre piccole città e nei nostri paesi è quella praticata da una vastissima platea di mezze figure che, per vocazione naturale e consuetudine familiare, prova l'insopprimibile bisogno di conoscere e commentare qualsiasi cosa, meglio ancora se imbarazzante e compromettente, che riguardi la vita degli altri.
La capacità che hanno in comune - perché di capacità indubbiamente si tratta, anche se così evidentemente negativa - è quella di ridurre alle proprie dimensioni qualsiasi avvenimento o persona, distillandoli attraverso i filtri di una mente rudimentale e mediocre per poi raccogliere, all'uscita dell'alambicco, il concentrato fangoso e deteriore della loro biochimica cerebrale.
Gilberto Tonti La vecchia levatrice con la quale cominciai a parlare di pigione e di altre questioni contrattuali, alla presenza di un marito apparentemente distratto e poco interessato dietro il paravento degli occhi semichiusi e di un sorriso ingannevole e deferente, trovò il modo nel giro di pochi minuti di aggredirmi con una inverosimile quantità di informazioni e commenti che di sicuro aveva meticolosamente preparato in precedenza: la sua era l'unica casa di tutto il paese adeguata alla famiglia del medico condotto; probabilmente era possibile trovarne qualcun'altra, altrettanto o poco meno confortevole ma con proprietari poco raccomandabili; il territorio della condotta era completamente privo di strade con la sola eccezione di quella per Riofreddo, della gente era meglio non fidarsi, l'ambulatorio si vedeva dalla finestra del soggiorno, il parroco era piuttosto grossolano ma fondamentalmente buono e disponibile, la farmacia più vicina era quella di San Piero in Bagno; agli uffici del Comune di Verghereto si poteva arrivare in auto passando per Bagno di Romagna, ma si trattava di 60 chilometri fra viaggio di andata e di ritorno, oppure a piedi o a cavallo attraverso le tenute della Radice e del Petrusco; la figlia della vecchia postina…era a Prato e l'attuale … era notoriamente ammalato…e così via dicendo.
A un certo punto fu probabilmente presa dallo scrupolo che quelli fossero argomenti poco interessanti per uno che veniva da una città come Cesena ma, subito dopo, cominciò a raccontarmi che alla fine della sua carriera durante la quale, “non fò per dire - affermò orgogliosa - ma ho raccolto molte soddisfazioni e consensi” il Comune di Verghereto aveva eliminato dall'organico il posto di ostetrica per mancanza di denaro e di possibili concorrenti per una condotta disagiata come quella di Alfero.
E giù a rotta di collo con altre notizie: il sindaco abitava a Rimini con la famiglia e veniva in Comune un paio di giorni alla settimana; la camionabile per la vicina frazione di Mazzi non era ancora finita dopo tre anni dall'inizio dei lavori perché il cantiere Fanfani - proprio lui, l'Amintore nazionale - che l'aveva in appalto pagava gli operai qualcosa meno di 500 lire al giorno senza contributi e nessuno, per quella cifra, aveva proprio la voglia di rompersi la schiena; suo marito - che nel frattempo continuava a sorridere e a controllare la conversazione attraverso le fessure degli occhi simili a quelle di una marmotta prossima al letargo, ma con orecchie mobili e diritte come quelle di una lepre che ha sentito il latrato rabbioso della canèa - veniva da Santa Sofia ed era molto rinomato come artista della pietra serena; non avevano figli ma, probabilmente, era meglio così perché i figli costano e raramente ripagano i genitori per i sacrifici e l'impegno…[…]”
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Casa natale di Gilberto Tonti

Non ho mai capito – continua Tonti nella descrizione di quell’episodio - se quella donna mi avesse investito con quel torrente di parole incongruenti e fangose per assecondare la sua incontenibile vocazione alla maldicenza o per demolire ogni mia possibile riserva davanti alla cifra esorbitante che mi chiedeva, mentre il marito continuava, come una musica di sottofondo, a magnificare gli accorgimenti che di persona aveva usato nella costruzione di quella casa: sta di fatto che accettai senza la minima contestazione tutte le sue richieste ponendo per conto mio la sola condizione, prontamente accettata, di trovare la casa completamente libera nel giro di una settimana e proponendole di pagare l'affitto ogni sei mesi anticipati per tutelare i loro interessi nel modo migliore (" ma si figuri dottore se c'è bisogno di queste precauzioni fra gente come noi…” – replicò la signora) e le mie coronarie dal supplizio, magari accompagnato dall'invito a prendere una tazza di caffè, di suonare mensilmente a quella porta.
Oggi non saprei dire quante volte nel corso della mia vita ho rinunciato a concludere affari di sicuro interesse solo per evitare l'intollerabile fiumana di parole che, solitamente, accompagna quel tipo di trattative, ma quella fu sicuramente la prima volta.
A quella signora così premurosa e gentile, informata e loquace, devo tuttavia qualcosa di buono: la decisione che ho preso quel mattino e ho rigorosamente mantenuto per tutta la mia vita, di escludere dal mio rapporto con i pazienti qualsiasi concessione alla familiarità e alla confidenza”.

Gilberto Tonti

Ora passiamo ad un altro capitolo che il dottor Tonti sigla così: B. O. e nel quale si può cogliere, come e in quali condizioni, svolgevano a quei tempi il servizio di condotta medica. Durante l'ultimo anno di lavoro nella zona di Alfero gli capitò di curare un paziente, appena quarantenne, per una delle malattie più crudeli e dolorose che conosceva e che raramente, a quel tempo, aveva avuto l'occasione di vedere: “un tumore polmonare, ricordo ancora che si trattava di un microcitoma, rapidamente invasivo e accompagnato da una "mitragliata" di metastasi allo scheletro”.
Da qualche mese – ricorda Tonti - faceva il pendolare fra l'ospedale e la casa ma, ultimamente, aveva deciso di rifiutare le proposte di ricovero perché ne aveva compresa la totale mancanza di utilità e perché la sua abitazione era troppo lontana dalla Strada Provinciale e ogni volta c'era il problema di arrivare all'ambulanza trasportandolo con un carro da fieno: credo che buona parte delle tante fratture costali e vertebrali che lo tormentavano senza posa, fosse imputabile agli urti che riportava durante quei trasferimenti.
Con quella famiglia avevo stabilito un rapporto amichevole e simpatico dal tempo dell'ultima gravidanza di sua moglie: alle primissime doglie il marito, prudentemente, era venuto a cercarmi perché la mancanza di telefono e di strada consigliava di anticipare il più possibile l'intervento del medico, o della levatrice quando c'era.
Ma quella volta la chiamata era stata un pochino prematura, la dilatazione non fu completa prima di due giorni e per due notti, in attesa del periodo espulsivo, mi coricai accanto alla donna mentre il marito, per la mancanza di un altro letto, si era sistemato alla meglio nella mangiatoia della stalla.
Il materasso era solo un giaciglio di foglie di granoturco, rumorose e ondeggianti, e la donna cercava di trattenersi il più possibile ma, qualche volta, doveva pure lamentarsi nel momento delle doglie più forti.
Tuttavia ricordo di avere riposato a sufficienza perché, a quel tempo, per mia fortuna riuscivo a dormire in qualsiasi momento e dovunque mi trovassi, magari all'aperto e coricato sulla gualdrappa della mia cavalla, incurante di ogni rischio e disagio.
Quando, a cose fatte, me ne andai da quella casa le feci notare che sicuramente lei era l'unica donna nei dintorni che poteva vantarsi, o rammaricarsi, di avermi ospitato nel suo letto solo per dormire.
Da quella battuta, facile e felice, era nata e si era mantenuta la confidenza particolare che avevo con quella famiglia: a conti fatti il marito aveva dormito nella mangiatoia per lasciarmi il posto accanto a sua moglie, e non è che mi sia capitato tutti i giorni di coricarmi accanto a una donna sotto l'occhio, non solo amichevole, ma riconoscente e premuroso di suo marito.
Quando, qualche anno dopo, feci ritorno in quella casa stava arrivandoci, a lunghi passi, la morte.
Ogni due o tre giorni gli portavo alcune fiale di morfina: a quel tempo non c'era molto da scegliere fra gli analgesici, e parlando con lui toccavo con mano quella terribile paura che ti priva di ogni interesse verso qualsiasi cosa che non sia l'imminenza della tua morte e, angosciosamente, concentra ogni tuo pensiero su quell'inesorabile mostro che ti divora da dentro e, ancor peggio, su quello che ti attende alla fine di tutto.
Un giorno mi chiese di liberarlo da quella pena con qualche fiala di morfina in più e mi confidò che sua moglie era d'accordo con la sua decisione. Quando rifiutai, com'era obbligatorio e normale per quegli anni, mi apparve rassegnato e abbastanza tranquillo: sicuramente lo era più di me che stavo interiormente dibattendo il problema di come comportarmi davanti a una richiesta come quella che ricevevo per la prima volta.
Ero combattuto fra il desiderio di assecondarlo e quella specie di sudditanza, che allora sentivo sicuramente più di oggi, nei confronti di quelle norme così opportune per legittimare in certi momenti alcune decisioni molto spesso disumane che derivano, invece, da pigrizia mentale o da colpevole indifferenza.
Quella volta, e in altre occasioni, ho sinceramente invidiato alcuni fortunati colleghi che neppure si pongono il problema, sostenuti come sono da una Fede per la quale solo Dio può concedere e togliere la vita: ma questi sono privilegiati anche per altri motivi.
Qualche giorno dopo mi rivolse la stessa richiesta, ottenendo purtroppo la medesima risposta, probabilmente con parole che lo lasciarono senza speranza.
Stavo conversando da qualche minuto con sua moglie prima di risalire a cavallo quando, dall'interno della casa, arrivò il rumore di una fucilata: avevo capito subito e obbligai la donna a restarsene fuori e allontanarsi con i bambini che, nel frattempo, erano arrivati di corsa.
Si era ucciso sparandosi in bocca e quando chiusi a chiave la porta della sua stanza, adducendo come pretesto l'ispezione dei carabinieri, lo feci per evitare a quella povera donna lo spettacolo di quelle pareti e di quel pavimento.
Sono passati più o meno quarant'anni da quel giorno e ancora non mi sono perdonato: per la paura di complicazioni ho respinto una richiesta di aiuto disperatamente lucida e motivata e ho negato a qualcuno, che si fidava totalmente di me, l’estremo conforto di morire nel sonno della morfina: a difesa della mia tranquillità l’ho costretto al “peccato mortale” del suicidio e alla sofferenza atroce di prendere da solo quella decisione.
Peccato per peccato sarebbe stato infinitamente più giusto e generoso da parte mia commettere, a suo vantaggio, quello di “omicidio".
Potevo farlo tranquillamente senza il timore di espormi a problemi medico-legali, che avrei potuto facilmente evitare, o al giudizio divino del quale sinceramente, m'importava e tuttora mi importa meno di niente: ho preferito esporre quella donna con i suoi figli al disagio delle indagini e al veleno dei commenti e quell'infelice, che ci credeva, all’angoscia di presentarsi da peccatore al cospetto di Dio”
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Riguardo questo aspetto di stretta attualità che investe il tema dibattuto dell’eutanasia, il dottor Tonti probabilmente rammentava le parole che, all’inizio della carriera, un vecchio collega medico gli disse:”
Ricordati che dovrai - anche in cose di minore importanza come ascoltare un cuore o palpare una milza - usare la tua competenza non per dominare e decidere dall’alto, ma con umiltà e consapevole devozione verso chiunque abbia bisogno di te”.

Un altro episodio riguarda l’amico e collega dott. Pier Luigi “Ciccio” Rossetti.
Di lui evidenziava le difficoltà nel suo rapporto con le donne: “aveva – scrisse Tonti - al tempo stesso una fame insaziabile di femmina e l’insuperabile paura di avvicinare qualsiasi donna che non fosse a pagamento e comportasse una qualche iniziativa”.
Sicuramente nel suo comportamento – riporta il nostro medico romanziere - che a volte mi lasciava preoccupato e perplesso, entravano in gioco fattori diversi come la sua timidezza e la malinconia di fondo che traspariva dai lunghi silenzi. Potrei aggiungere, forse, la sua convinzione di non essere a sufficienza gradevole e disinvolto e l'insofferenza verso un certo tipo di conversazione e di argomenti che, d’altra parte, non è possibile evitare quando si frequenta assiduamente una donna o con lei si divide una parte della vita.
C'era qualcosa di più alla base di tutto questo: la coscienza - che praticamente era essere nata con lui perché non l'ho mai conosciuto diverso - della sostanziale precarietà di tutto e l'insormontabile resistenza che opponeva a qualsiasi tentativo di affacciarsi alla profondità dei suoi pensieri e alle contraddizioni della sua vita.
Solo una volta lo vidi sul punto di cedere al fascino di una donna e alla prospettiva di vita meno solitaria e, probabilmente, meno infelice: ma l'imperizia nel condurre sto genere di rapporti, per i quali non aveva alcuna esperienza precedente, e la cattiva sorte che l'accompagnava come un'ombra aggiuntiva, provocarono l’affondamento di quella fragile imbarcazione ancora prima che uscisse dal porto.
Durante l'estate aveva conosciuto sulla spiaggia di Cesenatico una giovane parrucchiera di Bibbiena «bionda e spirituale come una figura di Botticelli, assorta e misteriosa come la Gioconda ».
Durante le poche settimane delle sue vacanze l'aveva quotidianamente corteggiata, o per lo meno era questo che lui pensava, più che altro rimanendo seduto per intere giornate sulla sabbia a poca distanza dal suo ombrellone e fissandola di continuo come fosse un maniaco…
Dopo qualche giorno di appostamenti le si era avvicinato, senza presentarsi, né tanto meno qualificarsi, come logicamente avrebbe dovuto per cominciare quella partita a carte scoperte, e l'aveva invitata a una passeggiata lungo la spiaggia: ne aveva ricevuto, come era del resto prevedibile e naturale, un rifiuto deciso ma cortese ed era proprio su questa cortesia formale che “Ciccio” – Pier Luigi aveva liberato l'inesperto puledro delle sue fantasie.
Qualche giorno prima del suo ritorno a casa quella giovane donna aveva ricordato, probabilmente senza motivo, una piccola cittadina toscana, Bibbiena: e questa "confidenza" era divenuta per Ciccio l'inequivocabile segno dell'interesse che aveva suscitato in quella donna.
Da quel momento aveva duramente combattuto contro la tentazione di rivederla: alla fine aveva ceduto e si era messo in cammino deciso a ritrovarla, con la sola indicazione di quel nome [Bibbiena].
Una sera, verso la metà di dicembre, si fermò a pernottare a casa mia: da Cesena aveva raggiunto San Piero in Bagno con mezzi di fortuna e di lì aveva camminato fino ad Alfero, dove a quel tempo abitavo.
Non aveva infatti la macchina, non poteva usare la Vespa perché le strade erano ricoperte di ghiaccio e di neve e neppure servirsi della SITA perché non sopportava le ondulazioni e l'odore della nafta.
Dopo cena mi mise al corrente del suo progetto: riprendere il cammino prima che facesse giorno e, passando per i Mandrioli, arrivare a Bibbiena nel pomeriggio.
Era un formidabile camminatore e quindi il problema non era quello di arrivare ma, piuttosto, l'accoglienza che avrebbe ricevuto.
Aveva la barba lunga di qualche giorno, quella barba nera da “rom” che subito ti insospettisce e ti da l'impressione dell'incuria e del poco pulito, ed era vestito come soltanto lui riusciva a conciarsi in certi momenti: sopra un maglione di fattura casalinga e un paio di pantaloni di velluto a coste dalla piega indeformabile e resistente come un calamaro pescato da due giorni, indossava un cappotto militare acquistato, o ricevuto in regalo, molti anni prima da un piccolo commerciante di olio che lo usava per coprire il cofano del camioncino durante le notti invernali. Il copricapo non era da meno: si trattava di una specie di colbacco confezionato da sua madre con lana verde e marrone e così largo, per la piccola testa che aveva, da coprire largamente le orecchie e buona parte del collo.
Gli scarponi dalle suole chiodate, più o meno paragonabili a quelli leggendari di don Gino [parroco di Alfero], erano sicuramente arrivati in Europa molti anni prima col piano Marshall; i guanti erano di lana grigia, senza le dita, con la sola appendice, a forma di piccolo pseudopode floscio e consumato, destinata a contenere il pollice.
Cercai di convincerlo a rimandare il viaggio di qualche giorno, facendosi per lo meno precedere da un biglietto, possibilmente su carta intestata.
Gli proposi di accompagnarlo in macchina e di indossare uno qualunque dei miei vestiti che, nonostante fossero abbondanti per la sua statura, gli avrebbero comunque garantito un aspetto migliore.
Non mi ascoltò, come del resto mi aspettavo, perché stava vivendo il suo primo momento di esaltazione amorosa e tutto gli appariva possibile e dovuto: accettò con fatica di radersi col mio rasoio, ma solo perché la barba cominciava a dargli fastidio.
La mattina dopo trovai sulla tavola un biglietto di saluti e di ringraziamento per le provviste che aveva prelevato dal frigorifero: gli augurai mentalmente buon viaggio e buona fortuna, ma non ebbe né l'una né l'altra.
Superato il valico dei Mandrioli fu investito da una bufera di vento e di neve che lo costrinse a camminare a testa bassa fino al bivio di Serravalle, nonostante la strada fosse naturalmente tutta in discesa.
Sulle ali della speranza, forse dell'amore, e sulle gambe della sua straordinaria resistenza alla fatica, arrivò a Bibbiena un paio di ore dopo il tramonto.
Il negozio della parrucchiera era situato lungo la via principale del paese e, una volta individuata la vetrina, attese l'ora della chiusura seduto a poca distanza sugli scalini di una casa.
Un'ora dopo, mentre la ragazza stava chiudendo la porta, Ciccio trovò finalmente il coraggio di avvicinarla e, senza dire una sola parola, la toccò leggermente sulla spalla: ma lei, urlando di sgomento e di raccapriccio di fronte a quella figura tibetana, trovò la forza di rientrare nel negozio e, mentre Ciccio al di la della vetrina tentava di rassicurarla, chiamò per telefono i carabinieri.
Quando arrivò la pattuglia, nel giro di pochi minuti, trovò lo yeti ancora davanti a quella vetrina che cercava inutilmente di aprire: dopo averlo identificato negli uffici della caserma lo accompagnarono con una “pantera” alla stazione ferroviaria di Arezzo e rimasero con lui sulla pensilina fino a quando non lo videro salire sul primo treno diretto a Bologna.
I sogni non sempre finiscono all'alba, sull'erba profumata di un prato fiorito ma, qualche volta, anche durante le ore della notte attorno ai binari di una ferrovia”
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«I ricordi sono come foglie ingiallite, a malapena galleggianti sull’acqua stagnante del nostro passato – leggo da “E se fosse tutto vero?” un’altra pubblicazione inedita di Gilberto Tonti - di quella parte di vita sempre più lunga che, inesorabilmente ci lasciamo alle spalle.
Negli ultimi anni avrebbe fortemente voluto… «riascoltare, per qualche istante, le voci rassicuranti e pacate che riempivano la casa di mio padre, alternandosi a lunghi momenti di opportuno silenzio. Il senso del tempo che vorticosamente mi scivola dietro le spalle come la scia ribollente di una nave, io la provo ogni volta che ricordo mio padre…una figura discreta, malinconica e precocemente invecchiata nel suo pigiama a righe…».

Tonti ricorda in modo struggente anche sua madre Noemi alla quale era molto legato:”…morì, fra le 5 e le 6 pomeridiane di una brevissima giornata di dicembre, aveva gli occhi semichiusi rivolti verso la luce di un lampadario, quasi volesse esorcizzare per l'ultima volta il buio che si vedeva fuori dalla finestra, e quello interminabile che stava arrivando. Ho compreso mia madre molto di più di quanto comportasse la mia condizione di figlio perché, da quando ricordo, ho sempre coltivato dentro di me, con alterni momenti di fiducia e di sconforto, la speranza di trovare al di là della morte una qualsiasi forma di vita, sia pure infernale e punitiva, ma purché si tratti di vita”. Di lei rammenta pure i benevoli rimproveri che gli indirizzava riguardo la sua non accortezza nelle spese che faceva, e nelle decisioni che prendeva: “ma lei capiva – accenna sempre in “E se fosse tutto vero?” – per prima quanto fosse difficile pretendere l’oculatezza e la moderazione da uno come me, che aveva la voracità di una locusta alla ricerca di raccolti da saccheggiare, e l’imprevedibile volo di una farfalla cavolaia fra l’infinita varietà di corolle profumate e zuccherine”. “L’uniformità di comportamento – sosteneva il Nostro - è una caratteristica dell’asino che percorrendo mille volte la mulattiera da Mazzi a Corneto cammina sempre sulle medesime pietre consumandole a furia di zoccoli e di monotonia: perfino il bue fa meglio di lui”.
Di entrambi i genitori racconta di un sogno – forse immaginario – del quale distingue bene i contorni e le espressioni:”…mio padre aveva il suo solito volto severo e bonario; lei, mia madre mi appariva rassegnata e come delusa, forse da me e dalle vicende della mia vita: credo si aspettasse molto di più e molto di meglio”.

Vi è un altro ricordo importante che riguarda l’incontro avvenuto nel 1956-57 con Padre Pio durante una vacanza sul Gargano nell’ambito di una battuta di caccia. Salvatore, un parente di Padre Pio, proprietario della masseria dove Tonti alloggiava, gli prenotò in tempo record un colloquio: “Erano esattamente le sei – scrive nei suoi “Appunti di viaggio” – quando un monaco bussò alla porta di Padre Pio per annunciare la mia visita: stava seduto di fronte ad un tavolo di legno, si girò verso di me senza salutarmi e con evidente fatica; il corpo era massiccio o forse appesantito dai lunghi anni di immobilità forzata, la mano sinistra che teneva appoggiata sulle ginocchia tremava visibilmente, nonostante cercasse di nasconderla sotto la piega del saio… mi guardava con occhi sporgenti, quasi bovini, privi di ammiccamenti, ma indagatori e penetranti, francamente inattesi per un viso edematoso e giallastro, rigido nella mimica e pesante nel profilo, che tradiva quasi certamente l’uso prolungato del cortisone. Dopo un po’ cominciò a parlare adagio: “Siete voi quello che vive in casa di Salvatore”. “Sono io – risposi - e mi dispiace avervi disturbato a quest’ora”. E Padre Pio: “Per me tutte le ore vanno bene perché da molto tempo non riesco a dormire…” Poi, sempre Padre Pio, all’improvviso passò dal Voi al Tu: “io lo so per che cosa sei venuto, lo so da quando Salvatore mi ha parlato di te e poco fa, appena ti ho visto entrare ho subito capito che seminare nella tua mente sarebbe come sciupare chicchi di grano buono sul terreno arido e improduttivo delle nostre Murge. Tu questa volta sei venuto solo per indagare e giudicare un mondo che non ti riesce di capire: quando, a furia di vita, avrai liberata la tua testa dall’arroganza della ragione e della cultura che presumi di avere, in quel momento, se ancora ti farà piacere o sentirai di averne bisogno, potrai nuovamente bussare a questa porta”. Allungò la mano verso il tavolino e mi consegnò una busta facendomi intendere che la conversazione era finita. Mi fermò sulla porta mentre stavo uscendo nel corridoio e disse: “Tu stai consumando troppo voracemente la tua vita, di questo passo arriverai alla fine della tua corsa senza trovare il tempo per capire e prepararti a ciò che ti aspetta dopo l’ultima stazione”. Prima di allontanarmi dal monastero mi fermai davanti alla chiesa pensando che la busta aperta com’era fosse l’invito per un’offerta, ma conteneva solo una specie di “santino” con poche parole sul retro stampate da qualche tipografia artigianale: “…ricorda che la misericordia di Dio è infinitamente più grande della tua malizia” e in fondo al cartoncino Padre Pio in persona aveva aggiunto una breve appendice che non intendo rivelare. Quell’episodio lo turbò notevolmente al punto di chiedersi cosa volesse suggerirgli Francesco Forgione da Pietrelcina con quell’affermazione “Ricorda che la misericordia di Dio è più grande della tua malizia”: di avere Fede o di avere fiducia? Di credere o di sperare? Riguardo questo, una lettera a lui indirizzata in tempi successivi da un amico, riporta: “quando avrai navigato ancora per molti anni arriverai a capire che per forza dev’esserci qualcuno al timone della barca, diversamente avresti naufragato molto prima…non lasciare che il sole tramonti sulla tua mancanza di fede…”. E ancora, sulle parole di Gregorio di Narett, l’anacoreta armeno: “Tu sei l’immensità ma senza di te non c’è misura…gloria tremenda, nome irraggiungibile, invito alla grandezza, impenetrabile essenza di tutte le cose, lontananza inaccessibile e vicinanza insuperabile”. “Se una presenza capace di suggerire pensieri come questi – si chiedeva il medico – non è Dio, allora cos’è? E dove si nasconde? E come potremo superare l’invalicabile vicinanza che ancora ci separa da Lui?”.
Attraverso i suoi scritti Gilberto Tonti ha configurato le stagioni, gli umori e i sapori della sua esistenza attraverso una coinvolgente passeggiata fra romanzi, saggi, riflessioni, vicende e personaggi che, in maniera significativa hanno interferito con lui e il suo modo di pensare. Grazie a questi oggi possiamo rintracciare l’essenza di vita di questo personaggio il quale affermò: «Salvo ripensamenti – sempre possibili quando si scava fra le pieghe di un’esistenza oramai troppo lunga e piena di avvenimenti – credo sia arrivato il momento di affidare il lavoro alla perizia di qualcuno che lo stampi e alla benevolenza di qualcuno che lo legga».
Probabilmente aveva visto bene nel lontano 1959 l'editore milanese Giangiacomo Feltrinelli, al punto di proporgli un'offerta molto allettante per l'epoca (10 milioni più il 18% sull'incasso lordo per le prime 50 mila copie) per la pubblicazione del suo primo libro, intitolato “La beccaccia” ma Gilberto, conformemente al suo stile - talvolta refrattario - non diede peso più di tanto alla cosa e declinò.
Cekhov suggeriva di scrivere tutto per poi cancellare quasi tutto; Tonti ha scritto tutto ma probabilmente non ha cancellato nulla in questo suo narrare, in modo brillante l’esistenza nella quale, con straordinaria sensibilità e finezza, è riuscito a cogliere aspetti talora impercettibili con stile pulito, conciso ma ricco e trascinante al tempo stesso.
Romanzi di grande spessore a parte, egli parla spesso della sua esistenza, intensa e sofferta, lasciando intravedere, fra le tante sollecitazioni e suggestioni culturali e filosofiche mosse che «…coltivare un pregiudizio significa entrare in una specie di gabbia mentale dove non c’è spazio per la verifica della verità e per una conoscenza meno limitata delle cose e delle persone».

Nei suoi testi, i vari temi evidenziati e interpretati, nonché le storie in varie parti romanzate o realmente vissute, vengono talvolta “mascherati” e filtrati attraverso situazioni e personaggi dai nomi inventati, ma inseriti in contesti veritieri, nel quale il Nostro è stato protagonista o spettatore; oppure con descrizioni e commenti esposti in terza persona che riguardano, in ogni caso, lo scrittore stesso.

Per filosofo Martin Heidegger il linguaggio permette all’Essere di svelarsi: le parole ci fondano, ci giustificano, ci certificano che siamo su questa Terra e lo scrivere diventa un bisogno necessario ed inestirpabile che permette di definire uno scrittore (e il suo stile) nella sua essenza magnetica e insondata.

E tramite la scrittura Gilberto Tonti è riuscito ad esprimere se stesso, l’essenza dei suoi ricordi, la macerata inquietudine rivolta alla sua concezione di vita e al “dopo”, nonché la verità dei suoi sentimenti e delle numerose donne che gli sono piaciute, nella consapevolezza - almeno così penso - che per conquistare un’altezza morale e scendere dai trampoli del perbenismo o dell’ipocrisia, occorra scrivere e pubblicare tutto di sé stessi; solo in questo modo si può affrontare la vita.

Gilberto Tonti Presidente Rotary Club Valle del Savio

Ma come ad un grande scrittore russo, Lev Tolstoi, anche al nostro medico - romanziere mancava una cosa fondamentale per essere felice: comprendere il senso della vita e della sua fine.

Nella poetica di Tonti il motivo ricorrente è la morte: la morte in sé e l’amore inteso come cupio solvendi, cioè ansia di dissoluzione. Come don Giovanni, che in tutte le donne cerca l’Assoluto, Tonti nell’amore cerca la morte che è il punto a cui tende la sua sehnsucht, termine tedesco che indica il desiderio di trascendere, cioè di superare la propria realtà materiale per raggiungere un livello più alto: liberarsi della propria fisicità per entrare in contatto con l’infinito, con l’assoluto.

Ciò giustifica la profonda suggestione che opera in lui la natura e, quindi, come Schiller (poeta del romanticismo tedesco) anche Tonti avrebbe potuto scrivere alla fine della sua marcia di avvicinamento verso i confini estremi dell’esistenza: “La luna, bassa ad illuminare la foresta, la grande ombra del lupo sulla neve e il vento forte, che sospira e mi chiama…”.

    Edoardo Maurizio Turci

Ultimi scritti di Gilberto Tonti (1996-2004)

di Pietro Castagnoli

Ringrazio ancora una volta la signora Lella Tonti per la cortese generosità con cui mi ha messo a disposizione gli ultimi tre scritti che non avevo potuto avere in passato, Appunti di viaggio, La critica della ragion perduta e L'Ultima volta a Cracovia, che penso possano offrire una visione più completa della vita e dell'opera di Gilberto Tonti. Rimarrà per un'altra occasione lo studio della sua laurea in filosofia quando già era in pensione, gli ultimi due anni della sua vita.

Pietro Castagnoli

Edoardo Turci con amore e rispetto ha tentato di mettere ordine con questo libro molto accurato tra le carte di un "medico e romanziere di talento". Un tempo si usava medico umanista. Gilberto Tonti non è un intellettuale prestato alla politica. Si pone domande e cerca risposte nell'esercizio della sua professione, ma in ogni direzione, da uomo libero, e sempre con un sorriso trasgressivo. Per lui bisognerebbe usare il termine "intellettuale distopico",alla Anthony Burgess, che critica chi si rifugia nelle utopie e nelle astrazioni di comodo. Nell'Arancia meccanica sostiene che il vero segreto della nostra civiltà cristiana è di non cloroformizzare mai la nostra capacità di discernere. Mai perdere il controllo. È la sua Critica alla ragion perduta la vera malattia epidemica. Che significa perdere la ragione? Forse era questo il tema della sua tesi in filosofia, sui fondamenti delle scienze umane. Al termine della sua vicenda di medico condotto si iscrive stranamente alla facoltà di filosofia, a una prova "accademica" nel momento in cui la filosofia ufficiale diventa altrove, nel mondo, Philosophical counseiling,consulenza,dialogo con tutti, anche nei caffé, per alzare il tiro di una ricerca più personale, una terapia più cosciente della coscienza. Questo medico rimette alla fine l'intera sua vita sul tavolo anatomico.
Gilberto Tonti Edoardo Turci giustamente si rifà ad "Appunti di viaggio" per la ricostruzione di una vita senza requie a cavallo tra i greppi e le alte piane verdi della Valle del Savio. Ne riporta essenziali stralci documentari.
Nel '96 era andato in pensione dopo 47 anni di lavoro. Iniziò allora con decisione il suo "contributo alla critica di me stesso".
Sono 24 capitoli che conclude l' anno dopo, nel '97. Ogni capitolo ha un tema, una messa a punto di ricordi vividi, paesaggi come volti umani, volti umani come paesaggi. Le individuazioni hanno la perizia del grande viaggiatore che sa che ci sono soltanto meridiani e paralleli fittizi per chi lascia il nido familiare. Ha bisogno di ritrovarsi nei volti della madre e del padre, dei nonni, lontani ricordi della casa estiva a Cesenatico, del palazzo avito nel cuore di Cesena, palazzo dalle antiche origini, soffitti istoriati e ampie cantine a volta dove in tempo di guerra si trovava anche rifugio dai bombardamenti. È il suo rifugio del piccolo mondo antico che ha lasciato come un reticolo in secondo piano prima di correre la sua avventura di medico condotto tra le vette della Moia e le casette infossate intorno allo stradone di Alfero fino all'ultima sosta a Mercato Saraceno.
Si chiede perché mai questa scelta angusta e lontano da casa se c'erano altre prospettive di carriera.
La storia della sua vita si spiega col suo sguardo pensoso e irridente, lo stare fuori dalla banalità quotidiana, il gusto del rischio e il terrore di un ignoto che gli covava dentro.
Da ragazzo è già un cacciatore di valle, da Cesenatico alle pinete del litorale adriatico e dopo la scelta della condotta medica ad Alfero quando ha già il figlioletto di due anni Pier Luigi, fin da allora compreso nei silenzio raccolto delle chiese, può andarsene a cavallo per ore sotto le intemperie a visitare i suoi pazienti sperduti in case lontane e concedersi nei momenti liberi la nuova stagione di caccia in montagna. È una vita all'aria aperta. In Romagna il gusto della caccia restava l'ultimo residuo ancestrale del nomadismo e di una libera fuga dagli obblighi stanziali nelle chiuse di una civiltà contadina e cittadina.
Il capitolo sulla "beccaccia" rivela i segreti del suo animo. L'ha colpita al volo a mano stanca, l'inesorabile tiro mancino di stoccata, e l'è andata a raccogliere prima che il suo cane la masticasse nel riporto. È ferita all'ala, morente. Ne guarda gli occhi. Hanno perso la loro lucentezza:" Scomparve in pochi momenti la lucentezza nera e profonda della vita per cedere il passo alla grigia cortina della morte che stava rubando a quegli occhi l'ultimo istante di luce".
Ci siamo più volte chiesti perché un editore smaliziato e politicamente engagé come Giangiacomo Feltrinelli e il suo fidato consigliere avessero preso in considerazione un racconto come "La beccaccia" al punto di promettergli una cifra vistosa e stamparne tutta l'opera. Non avevamo il testo, una parte degli "Appunti di viaggio" (È il Cap.III,pp.13-17) ed è anche nello scritto "Don Gino, la beccaccia e Donato".
Sono pagine di meditazione sul nostro comune destino. Due giorni più tardi ritorna a Pereto col giovane Donato per la morte del padre o del nonno." Si trattava di una persona che avevo appena conosciuto e con la quale non avevo alcuna familiarità e, tuttavia, il contatto e la vista di quel corpo così lontano e distaccato dalla vita che quasi dava l'impressione di non averla mai posseduta, mi ripropose le domande di sempre: chi era costui e dove si trova in questo momento? e cosa rimane di quello che ha "prodotto" nella sua vita, poco o molto che sia, in opere e pensieri, sentimenti e passioni, affanni e fatiche, delusioni e speranze? e quale traccia resterà di un essere umano, di nome, se ben ricordo Getullio, all'infuori di qualche giorno o qualche settimana di ricordo nelle persone che ha lasciato? Pochi anni dopo mi sarei chiesto la medesima cosa per mio padre, qualche anno dopo per mia madre e ancora oggi per me".
La risposta viene data da Don Gino, il parroco che egli ammira per una saggezza coerente di vita semplice e cristiana. Mormora in ginocchio al defunto:"dovunque tu sia, arrivederci".
Spes ultima dea. È la speranza ultima di ritrovarci senza sapere come.
È anche la domanda che è al fondo della filosofia del XX secolo e di ogni possibile filosofia del Sein zum Tode, dell'essere-per-la morte e della Die Angst, l'angoscia, la vera stretta delle Termopili dove si decide della nostra identità personale. Una vita che può essere nella fuga, nella maschera, o nell'accettazione totale e preventiva della nostra finitezza.
Questo dottore è preso dalla stretta e si allontana in solitudine. Lo aspetta nella notte il corpo vivo di una giovane donna. Si rifugia sempre nei corpi di tante donne che gli si concedono. E pensa sempre al nulla che siamo mentre guarda la luna che splende e pare a portata di mano anche se ancora non avevamo potuto metterci piede. Ci saremmo andati poi,è la nostra odissea nello spazio, ma perché? Il vero spazio è il tempo che ci viene meno dentro di noi, il nostro buco nero esistenziale. L'incontro con la donna in questa stretta è il suo motivo ricorrente: amore e morte, eros e thànatos sono strettamente allacciati da sempre in un modo o nell'altro, dicono gli analisti. È una sovrapposizione e una mancanza, bisogno di sicurezza e lotta per la vita, continuità e rotture.
Tante donne gli si concedono con una facilità insolita. Confessa che in fondo sono loro a sceglierlo, sa scendere dentro il loro mistero senza violenza, però sempre con il gusto della trasgressione. Sa, o lo sanno insieme, di violare il tabù della morte. Sono solitudini che si avvinghiano in una sfida alla ricerca di un contatto fuori dal buco nero esistenziale.
Non capita a tutti e sempre di avere questa facilità di comprensione reciproca,la conoscenza vera.
A Ciccio non riesce. Il dott. Pier Luigi Rossetti è il suo amico di sempre, medico di intelligenza straordinaria e atleta d'eccezione che sfoga la sua aggressività nel pugilato, ma non riesce a legarsi a nessuna di loro, a trovare un rapporto che le possa legare a lui. La sua bestemmia era contro chi aveva chiuso le case chiuse, dove la donna si paga per le sue prestazioni amorose, ma non per quell' amore insieme che gli è vietato, gli è impossibile. È stato anche il destino di Cesare Pavese e di tanti altri. John Milton ci ha fatto capire fin dal Seicento che il vero Paradiso perduto è l'incapacità di parlare con la propria donna. Il dott. Rossetti si impicca davanti alla madre morente terminale. È una protesta assoluta, un atto di fede per chi moriva dopo avergli dato la vita. Si poteva fare qualcosa prima per aiutare l'amico a vincere questo che noi chiamiamo il vizio assurdo che gli covava dentro?
L'amico medico si sente impotente. Quella che noi chiamiamo follia è un miscuglio complesso di sedimentazioni successive che si accavallano fino alla perdita di ogni senso e alla "rivolta" gestuale.
Lo dimostra nelle analisi professionali e acute nella Critica della ragion perduta. Si può scrivere una Critica della ragion pura come ha fatto Emanuel Kant per portare a termine la rivoluzione copernicana dell'uomo sperduto in un cosmo infinito, è il Copernico che Gilberto Tonti si sente di venerare a Cracovia, come racconta ne L'ultimo viaggio a Cracovia, fatto nel 2000, quando vi ritornò dopo venti anni a verificare lo sfascio di un mondo crudele di cartapesta.
Per gli storici della scienza la rivoluzione astronomica copernicana è la prima delle tappe che porta al nostro decentramento, segue quella evolutiva e poi lo spostamento della centralità della coscienza a favore dei segnali delle pulsioni inconsce, ma il problema per Gilberto Tonti non è questo, è ancora più dentro, la fuga nella droga e nell'alcol, la perdita di sé nella dissipazione di chi non ha più punti di riferimento. Che dire di Auschwitz e Birkenau e dei lager di ogni tipo che fanno pensare alla malvagità che si è insediata al posto di un Dio creatore e provvidente? Kant ha sulla sua tomba a Kaliningrad, la vecchia Koenisberg, che se noi ci perdiamo nella contemplazione infinita del cielo stellato dobbiamo trovare sicurezza nella legge morale che è dentro di noi. Ma che è rimasto di tutto questo? L'ultimo viaggio a Cracovia vive di questa impotente nostalgia di un viaggiatore solitario che pare trovare la sua corrispondenza nella figura mitica dell'ebreo errante e delle sue sofferenze senza fine.
Siamo figli di scelte di vita. Siamo diversi gli uni dagli altri, ma siamo uomini. C'è un capitolo in questi Appunti di viaggio sul "razzismo interno", sulle nostre diversità etniche e culturali che ci condizionano. Sappiamo tutti che un veneto non è un palermitano e che un milanese ha una visione della vita all'opposto di un napoletano che tira a campà. C'è chi si dà da fare e chi invece pensa a cavarsela con espedienti, c'è chi approfitta della sua superiorità di condizioni e chi non riesce a uscire dal pozzo di miseria in cui è caduto. Non si può vivere di assistenza gratuita senza impegnarsi a migliorare le proprie condizioni, ma non si può nemmeno vivere taglieggiando chi non ha difese personali e approfitta di uno status di privilegio. È la tragedia italiana, ora tragedia globale, ultima sfida. Il pessimismo su questi problemi porta al disamore, all'inazione e alla lunga al sentirsi superflui, a un suicidio morale o materiale per chi non crede che non ci sia più nulla da fare.
La conclusione degli "Appunti di viaggio" è la lettera al Numero Due, che egli chiama demonio, forse uno sprazzo luciferino, o la tracotanza di Prometeo che ha rubato il fuoco agli dèi come una scintilla di vita. Il medico non si espone, ma sotto sotto c'è il mito della clonazione, il sogno di una immortalità conquistata in laboratorio, il frutto proibito.
Gilberto Tonti ha prima raccontato la sua visita a Padre Pio e il suo tentativo di capire il mondo irresistibile di fede che lo attornia. Riporta anche il testo del santino che gli ha dato in busta chiusa e in cui è scritto che la misericordia è sempre superiore alla malizia. La misericordia è quella del padre che perdona il figliol prodigo erratico che ritorna a casa smarrito e pentito. La malizia è più complessa, l'ubris dicono i tragici greci per chi non accetta i propri limiti nei confronti degli dèi,o meglio è l'arroganza di chi crede di voler capire tutto e poter fare da solo. Malizia comunque viene da male. È mancanza di umiltà e arroganza intellettuale,la sua, secondo il suggerimento o l'indicazione di padre Pio?
Basta riconoscere i propri limiti ? La lettera finale al Numero Due è paradossale, è al demonio, il dàimon alla greca. Chiede di poter vivere ancora due o tre secoli. Non gli è bastata una vita, troppo breve e troppo di corsa, sempre in affanno, perduti i primi inganni di una illusa gioventù, come affermava il poeta Caldarelli, o forse"gli ameni inganni" di una splendida natura che dobbiamo lasciare, di leopardiana memoria
Sembra una proposta luciferina, ma è alla base di ogni aspirazione umana, di ogni religione, di ogni vera terapia, il poter durare il più a lungo possibile e perfettamente integri. La sua professione medica si fonde con ogni fede religiosa, nonostante i suoi tanti distinguo intellettuali. È un medico che vuole continuare ad esserne il testimone vivente con i suoi scritti anche dopo la sua scomparsa nel 2004. Ora da parte nostra resta la pubblicazione delle sue opere, per intero, un documento di vita, una sfida pensosa che continui per chi viene dopo.

    Pietro Castagnoli
www.webalice.it/castagnoli.pietro
Palazzo Dolcini, Mercato Saraceno, 9 maggio 2008